L’insegnamento è una professione affascinante, ma anche profondamente logorante. Sempre più docenti si trovano a fare i conti con stress, calo di motivazione e rischio di burnout.
Questo articolo esplora cause e segnali di allarme, ma soprattutto indica possibili vie d’uscita: dalla pratica riflessiva alla forza della narrazione, fino alla creazione di spazi sicuri di condivisione. Perché la soluzione, come spesso accade, nasce proprio dentro le relazioni che ci mettono alla prova.
Quando la motivazione vacilla
Capita a ogni docente: momenti in cui la passione per l’insegnamento si affievolisce, la motivazione cala e l’energia sembra esaurita. È normale, è umano.
Lo ha spiegato il medico specialista in malattie professionali Vittorio Lodolo D'Oria, tra i massimi esperti di patologie legate alla professione, che ha lanciato l'allarme rivelando come oltre l'80% delle malattie professionali dei docenti sia di natura psichiatrica. Lo stress, come evidenzia il dottor D'Oria, è un “compagno ingombrante” per i docenti, che si infiltra nella loro vita privata e ne disturba il sonno.
La causa principale? La natura profondamente relazionale del mestiere: un'interazione continua e intensa con gli studenti, congiunta ad alte aspettative e fatiche organizzative. Persino agosto si trasforma in anticamera dell’ansia da rientro.
Ma come si arriva al burnout?
Il fenomeno del burnout nei docenti è un tema di crescente interesse nel mondo della ricerca. La dott.ssa Veronica Velasco ha commentato l’indagine dell’Health and Sustainability LAB dell’Università Milano Bicocca: quasi un docente su due (tra i circa seimila interpellati dal campione) è interessato da esaurimento emotivo, depersonalizzazione o bassa realizzazione personale.
Il termine burnout deriva dall'inglese e significa letteralmente «bruciato», «logorato», «fuso». Il burnout, riconosciuto dall’OMS come sindrome da stress cronico, è una realtà diffusa anche nella scuola. Non è solo stanchezza: è un esaurimento che tocca le componenti fisiche, spirituali, psicologiche e comportamentali. È la conseguenza di un prolungato squilibrio tra investimenti e risultati, come una sorta di usura del tessuto emotivo del docente che si è dedicato eccessivamente a una causa (o a una relazione) che non ha prodotto i risultati attesi, nonostante l'impegno profuso.
Il burnout differisce dallo stress lavoro-correlato: mentre lo stress è una risposta momentanea a una minaccia percepita, il burnout si riferisce a un insuccesso nel processo di adattamento accompagnato da un malfunzionamento cronico. È un processo a lungo termine, uno stress cronicizzato che difficilmente rientra spontaneamente.
Ma c’è una buona notizia: se il disagio nasce nella relazione educativa, è nella relazione che possiamo trovare anche la via per uscirne.
Dal problema… la soluzione
La professione di docente è affascinante ma complessa, ed è nella relazione che si possono trovare le risorse per affrontare o, anche meglio, prevenire il disagio, lo stress e il burnout.
Maria Grazia Riva, docente di Pedagogia generale all’Università Bicocca di Milano, scrive:
«La relazione, che comprende al suo interno la comunicazione verbale e non verbale, è molto complessa perché coinvolge la personalità interna dei soggetti, le loro visioni del mondo, il loro passato e le loro storie di vita complessiva; è carica dunque di tutti i vissuti di paura, di desiderio, di aspettativa, di ansia, tipici dell'esperienza interiore di ognuno. La relazione interpersonale è carica di tutto ciò che ogni singolo vi immette, a partire dal proprio patrimonio emotivo ed esperienziale.»
Le domande che mettono in discussione (Ma chi me lo fa fare? Perché lo sto facendo? Che cosa ci guadagno?) possono diventare un faro nel riattivare la motivazione (e non, come spesso capita, per cadere nella crisi) per interrogare la nostra soggettività, che è protagonista di tutto ciò che costruiamo a scuola.
«Non si può pensare di chiamarsi fuori come soggetto con la propria storia personale, i propri problemi, partendo, anzi, dal chiedersi il perché di questa scelta professionale. Noi siamo coinvolti con tutti noi stessi, a livello cognitivo e affettivo, nelle esperienze quotidiane, e quindi anche in quelle scolastiche. Spesso, ci si trova cortocircuitati dalla dinamica dell'impotenza e dell'onnipotenza nella relazione con gli allievi, cosa che espone gli insegnanti a forti stress. Per la maggior parte degli insegnanti non affetti da psicopatie strutturali, quello che brucia (to burn) è la continua esposizione ad un ambiente in cui la consapevolezza dei grovigli comunicativi è scarsa, se confrontata alla quota sufficiente e necessaria per esercitare questa professione.»
Quando un docente rielabora il proprio vissuto da studente può ridare senso a quelle esperienze e impedire che certe dinamiche interiorizzate si ripetano in modo nocivo. Non si tratta semplicemente di rimettersi nei panni dello studente, ma di “riparare” quella storia personale con gli occhi e l'intenzionalità del docente che oggi è diventato. Come faceva Socrate, che attraverso la narrazione “faceva nascere” (maieutica) nuovi pensieri.
Porre le domande giuste
La pratica riflessiva emerge come una chiave di volta per trasformare questa crisi in un'opportunità di crescita collettiva. Non si tratta solo di una tecnica pedagogica, ma di un vero ritorno alle origini della professione docente: la capacità di imparare, di mettersi in discussione, di crescere insieme.
La pratica riflessiva ha radici nella pedagogia, così come spiega la stessa dottoressa Riva. Si tratta di un raccontare la propria vita da studente inserendola in una trama di significati che da adulti possiamo attribuire, generando una nuova consapevolezza.
A scuola esistono già forme di relazioni positive tra colleghi. Come sottolinea la dottoressa Riva, si può sviluppare una collaborazione "confortevole" basata sullo scambio di consigli e trucchi del mestiere. Ma quanto cambierebbe la vita scolastica un approccio capace di mettere in contatto reciprocamente i docenti in modo più profondo?
Immagina di avere spazi sicuri dove poter riflettere insieme ai colleghi su domande semplici ma potenti: Cosa ha funzionato bene oggi? Cosa non ha funzionato e perché? Come si sono sentiti i miei studenti? Cosa ho imparato oggi? Come posso migliorare domani?
Il potere della narrazione
Raccontarsi non è semplicemente riportare i fatti. È un modo per attribuire senso a ciò che è accaduto, soprattutto a ciò che non è più possibile rivivere. La narrazione di sé nasce proprio da questa distanza: ci consente di tornare su ciò che è stato con uno sguardo nuovo, di riscrivere le parti irrisolte, di trovare continuità dove prima c’erano solo fratture.
È un processo che non si limita a descrivere la realtà, ma la ricostruisce, la interpreta, la riorganizza in contesti di significato. Non rappresentiamo la nostra storia: partecipiamo attivamente alla sua elaborazione, generando legami, traiettorie, aperture. È una forma di conoscenza che passa da noi stessi, un apprendere da sé, attraverso sé. Ma per poter narrare, per dare un senso a ciò che è stato, serve una materia prima fondamentale: la memoria.
Mihály Csíkszentmihályi scrive:
«Una persona incapace di ricordare viene privata della conoscenza delle esperienze precedenti e non è in grado di costruirsi nella coscienza dei modelli che portino ordine nella mente.»
Apprendere e insegnare non sono mai pratiche neutre: “riparano” il vissuto da studente con gli occhi e l’intenzionalità del docente che genera un contesto di senso entro cui agire. Si tratta di tornare studenti per diventare maestri.
Creare spazi di condivisione sicuri
Quando un docente si rimette nei panni di uno studente accade qualcosa di magico. Riscopre la vulnerabilità dell'apprendimento, la bellezza della scoperta, la necessità di essere guidati con pazienza e comprensione. Questo cambio di prospettiva non è solo benefico per gli studenti, ma rappresenta una fonte di rinnovamento motivazionale per il docente stesso.
Per questo è importante creare spazi di condivisione sicuri dove i docenti possano esprimersi liberamente senza timore di giudizio. Questo può avvenire attraverso incontri regolari, gruppi di studio o anche piattaforme online dedicate.
Perché imparare qualcosa di nuovo, cioè confrontarsi con mondi sconosciuti, spesso può provocare un dolore mentale e può capitare che si abbia bisogno di un aiuto, di qualcuno che aiuti a pensare.
Una rivoluzione culturale
La pratica riflessiva comunitaria non è solo una strategia per combattere il burnout dei docenti, ma rappresenta una vera e propria rivoluzione culturale nel mondo dell'educazione.
Il cambiamento inizia da una semplice domanda: Cosa ho imparato oggi? Ma quando questa domanda viene condivisa, discussa, approfondita insieme ai colleghi, diventa il seme di una trasformazione che può rigenerare non solo la motivazione individuale, ma l'intero sistema educativo.
Il tuo potere di cambiamento
La strada verso il benessere dei docenti passa attraverso la riscoperta della propria natura di eterni apprendisti e la costruzione di comunità che sostengono, sfidano e ispirano. In questo percorso, ogni docente ha il potere di diventare non solo un educatore migliore, ma un agente di cambiamento per l'intera professione.
Non sei solo. Non devi affrontare tutto da solo. E, soprattutto, hai il potere di fare la differenza. Per te, per i tuoi colleghi, per i tuoi studenti.
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- [Approfondimento 📚] L’insegnante professionista dell’educazione e della formazione, Maria Grazia Riva, Edizioni ETS, ISBN 9788846720108, 2008
- [Approfondimento 📚] Flow - Psicologia dell’esperienza ottimale, Mihály Csíkszentmihályi, ROI Edizioni, ISBN 9788836200382, 2021
Luglio 2025 - Questo articolo è a cura di Simona Sessini